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Conclusioni del libro Falsa Equivalenza
di Paola Dama

L’opera presentata non potrà mai ritenersi un’opera finita, del resto che definizione possiamo dare di verità. Esiste la verità nella scienza? Che cosa rende vera una teoria? Ha senso parlare di progresso scientifico? Come distinguere ciò che è scientifico da ciò che non lo è? Queste domande assillano scienziati e filosofi da molti secoli. La risposta data dal positivismo ottocentesco, che considerava a 'vero’ solo ciò che viene mostrato dall'osservazione e dalla verifica di 'dati' e 'fatti', si è rivelata bene presto insoddisfacente. All'interno dell'epistemologia del Novecento si sviluppò quindi un vivace dibattito intorno a questioni - ancora attuali - che non riguardano solo scienziati e filosofi, ma che influiscono anche sul complesso rapporto tra scienza e società.[1]

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La verità scientifica, non è assoluta, ma relativa alla conoscenza attuale. Non si fonda su dogmi, ma su osservazioni che possono anche cambiare nel corso del tempo, come nel caso della epidemiologia. L’argomento trattato in questo libro, è spinoso e complesso e lo si evince proprio da queste pagine in cui da un lato vengono raccolte le testimonianze di azioni spesso “fallaci” e dall’altro le testimonianze di quei disperati tentativi di riportare ordine e dimensione ad un fenomeno che non può essere semplicemente etichettato come “Terra dei Fuochi”. Il mio “disperato tentativo” è quello di fornire un mezzo su cui tutti possono basarsi, sia per comprendere come nasce la disinformazione che conduce poi ad azioni di massa caotiche e molto controproducenti, sia per permettere di reperire quelle informazioni necessarie a cui non è sempre facile avere accesso.

Analizzare l’ambiente, effettuare analisi epidemiologiche, dare supporto alle decisioni, permettere scelte necessarie e ottimali, non è un lavoro alla portata di tutti.  Ma che a tutti va porto in maniera semplice e graduale per la condivisione degli obiettivi e per la partecipazione ai processi. Mettere una enorme tabella con risultati da confrontare con sigle quali CSC, CSR così come enunciati nella normativa di settore, con coordinate geografiche astruse, senza relazioni di sintesi dedicate alla comprensione del largo pubblico, di per sé non è trasparenza. Pertanto non è un azzardo affermare che la maggior parte dei cittadini ad oggi non abbia altra strada che affidarsi ai “testimonials”. Alle persone che, ben lungi dall’avere competenze scientifiche e tecniche, hanno scelto di stare vicino alle comunità sofferenti per altri motivi. Dall’associazionismo al mandato pastorale, ai medici di base. Il grande assente è stato fino a poco tempo fa lo Stato e le istituzioni locali, poi l’allarme sociale ha costretto la politica a tentare soluzioni. Spesso raffazzonate e scoordinate, dal momento che si sono intraprese azioni solo per l’insostenibile pressione dell’opinione pubblica.

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Dal primo capitolo, ho provato a chiarire e distinguere, quelle che sono considerate le vere Emergenze in Campania, attraverso quindi la suddivisione in: emergenza madre, quella della redazione, aggiornamento ed attuazione del Piano di smaltimento dei rifiuti; emergenza delle bonifiche e del recupero delle aree industriali dismesse; emergenza dovuta alla combustione dei rifiuti abbandonati in superficie, la cosiddetta emergenza Terra dei Fuochi. Infine forse la più severa delle emergenze, non foss’altro perché impedisce di operare correttamente su quelle precedentemente elencate: la frattura tra Cittadini ed Istituzioni.

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La popolazione è stata letteralmente divorata dalla confusione, partendo proprio dalla stessa definizione della questione della Terra dei Fuochi, cosi come ho provato a spiegare nel capitolo in cui vengono riportate le dichiarazioni di Schiavone. Bisogna infatti distinguere tra il fenomeno dello smaltimento illegale dei rifiuti dovuto ad abbruciamento o all’interramento. Non possiamo parlare propriamente di “fenomeni inquinanti tipici della Terra dei Fuochi”, perché l’unica cosa diversa di quanto accade nel resto d’Italia è il fenomeno dei roghi dolosi di rifiuti che avvengono indisturbati ogni giorno, malgrado l’insofferenza e la denuncia della popolazione, mentre è comune anche ad altre regioni italiane il continuo - e penalmente rilevante - abbandono dei rifiuti lungo strade a minore densità di traffico che poi, nelle zone più isolate come nelle stradine di campagna o interpoderali saranno più facilmente soggetti a combustione da parte di coloro che vogliono rendere irriconoscibili i rifiuti e, quindi, la loro origine. Grazie a Giovanna Corona, Pandora ha avuto accesso ai dati degli interventi dei Vigili del Fuoco del comando provinciale di Caserta e alla documentazione dell’ARPAC per identificare la tipologia dei rifiuti bruciati in modo da poter incrociare i dati con quelli dei Vigili del Fuoco al fine di ottenerne una stima relativa, cosi come mostrati nei grafici riportati nel testo. Giovanna ha anche fornito ottime spiegazioni riportate nel libro sul probabile intake alimentare dei contaminanti.

Se per “inquinanti tipici” vogliamo considerare i prodotti di degradazione ambientale dei rifiuti solidi urbani come storicamente gestiti nelle discariche, la c.d. Terra dei Fuochi è - sia pure per motivi squisitamente geologici - decisamente molto meno compromessa di molte altre regioni italiane, se non di tutte. Se invece con “inquinanti tipici” vogliamo considerare i fumi e gas di combustione come presenti nell’aria, occorre tenere presente che tutti i principali gas di combustione (ossidi di azoto e di carbonio principalmente) e di particolato solido come gli idrocarburi policiclici aromatici che si formano sono gli stessi qualunque sia la sostanza organica combusta. Quindi, anche in assenza di dati puntuali sulla qualità dell’aria nelle nostre zone, è ragionevole ipotizzare che più che sulla quantità di fumi rispetto a sorgenti “normali”, come il traffico o i riscaldamenti o l’energia termica controllata, occorrerebbe andare a valutare la differenza qualitativa, e pertanto l’effettiva ricaduta sanitaria. Il fenomeno dei roghi va necessariamente collegato all'abbandono dei rifiuti.  Se non c'è l'abbandono di rifiuti come si fa a incendiare? Da questo punto di vista, e alla luce di numerose risorse di dati, anche cartografici, attualmente reperibili su web (si può citare ad esempio quella degli abbandoni superficiali di rifiuti dal 2007 al 2014 dell'arch. Antonio Dinetti, che ringrazio per la sua disponibilità), è evidente che il fenomeno degli abbandoni sia tipico di aree di diffusa economia a nero. E che quindi la Campania abbia la triste palma di questo primato, in particolare una zona come quella del Nord Napoli - Casertano in cui di fatto non è mai stata davvero conosciuta ed applicata la gestione specifica dei rifiuti speciali come regolata da decenni a livello nazionale ed europeo. Nell'ultimo decennio il territorio della Campania è stato uno dei più osservati e monitorati, basti pensare all'esperienza del Commissariato di Governo per l'emergenza bonifiche inserito nella Direttiva europea INSPIRE ed al telerilevamento. Quest'ultimo ha avuto punte di avanguardia come il MARSEC di Benevento. Purtroppo da tale mole di lavoro non è stato creato valore aggiunto, né informativo né decisionale.

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Altra confusione in cui è caduta la popolazione, è sicuramente la via e la sorgente di esposizione: le matrici ambientali, quali acqua, suolo, aria o il comparto agroalimentare. Ho trattato in queste pagine, il grave e vergognoso attacco ai prodotti della nostra terra. I prodotti agricoli sono perfettamente sani, e lo si sono rivelati persino se e quando cresciuti nei terreni dove è stata provata la presenza di materiali estranei intenzionalmente quanto abusivamente aggiunti ai terreni. Gli studi in merito sono stati portati avanti specificamente nell’area vasta del cuore della Terra dei Fuochi, ossia nei terreni immediatamente circostanti le discariche tra il casertano ed il napoletano, a cura dell’Istituto Superiore di Sanità, nel triennio 2011 -2013, e sono tutte pubblicate sull’apposito sito della Regione Campania sulla Terra dei Fuochi, appunto oltre che sul nostro. A tal proposito ringrazio Mario de Biase, commissario alle bonifiche, che pazientemente ha avuto modo di spiegarmi le azioni e le indagini svolte in un territorio difficile quanto l’Area Vasta di Giugliano che in quel periodo era stata portata alla ribalta grazie ai servizi di Nadia Toffa de Le Iene. Così come ringrazio Massimo Fagnano che ha fornito, fin da subito nel 2013, i primi risultati delle analisi svolte dall’Università di Agraria di Portici e gli agricoltori che hanno volontariamente inviato i certificati agroalimentari a Pandora.

Ovviamente, questa massiccia campagna pluriennale è stata fatta soprattutto per avere e fornire le evidenze sperimentali di data certa su presupposti certi (i dati analitici sui terreni di crescita) di quanto in biologia vegetale - come in agraria - si sa da moltissimi anni. Non è che i vegetali siano “immuni” dall’inquinamento: da quello dell’aria infatti non sono in grado di difendersi in alcun modo e sulla loro superficie si deposita tutto ciò che altrimenti ricadrebbe sul terreno, come per tutte le superfici. Ecco perché comunque è indispensabile procedere sempre al lavaggio degli ortaggi come della frutta, che era comunque una misura igienica di tipo microbiologico consolidata, perché gran parte di quello che è nell’aria in forma di particolato resta sulla superficie e viene rimosso meccanicamente con il lavaggio. Per quello che riguarda invece la eventuale contaminazione del terreno, bisogna ricordare che i vegetali sono comparsi sulla terra quasi mezzo milione di anni fa, quindi hanno avuto tempo e modo di selezionare la loro acquisizione di nutrimento, visto che oltre tutto, a differenza degli animali, non possono spostarsi per andare a cercarselo. Hanno sistemi di assorbimento radicale sofisticatissimi, tanto che riescono ad assorbire i sali disciolti nell’acqua intrappolata nel terreno solo in misura sufficiente alle loro strette necessità “alimentari”, e per molti dei sali più complessi hanno nei milioni di anni trovato un sistema di proteine, presenti nelle sole radici e prodotte solo da particolari cellule radicali, specializzato nel trasporto di questi sali all’interno delle radici e da lì alla distribuzione selettiva alle varie parti della pianta: non esistono né possono esistere piante “anoressiche” né piante “bulimiche”! Proprio per questa loro altissima selettività, hanno soglie di tossicità individuale assai più basse degli animali, soprattutto degli animali superiori, e quindi persino in presenza di sostanze essenziali alla loro vita e crescita se in eccesso l’effetto è fitotossico. Questo deve essere messo in relazione proprio con la selezione, che ha fatto in modo da far morire precocemente, e quindi impedire la riproduzione, i vegetali “capitati” in terreni inadatti al loro sviluppo. Questo è talmente “normale”, per le piante, che alcuni vegetali, ed anche prodotti agricoli, sono tipici di alcune zone e non hanno lo stesso sviluppo, o non attecchiscono del tutto, anche a pochi chilometri di distanza.

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Nella prefazione del Rapporto ISTISAN 11/9 IT [2]si ritiene che, sulla base di una sempre maggiore preoccupazione sulla salute pubblica degli effetti dell’esposizione della popolazione generale a contaminanti presenti nell’ambiente, nel cibo o in prodotti di consumo, i dati ottenuti dal monitoraggio ambientale non sono in grado di fornire una completa caratterizzazione dell’esposizione umana e, quindi, del rischio per la salute. In primo luogo perché per molti inquinanti ambientali non vi è ancora completa conoscenza delle possibili vie di esposizione, della capacità di assorbimento e della suscettibilità individuale; le specifiche caratteristiche dei siti di campionamento ambientale, inoltre, non sempre permettono una generalizzazione e una stima appropriata dell’esposizione della popolazione generale. Negli ultimi decenni, le preoccupazioni per l’ambiente e per la salute hanno portato a un tentativo di convergenza per individuare delle strategie di prevenzione al fine di contenere e minimizzare i possibili impatti sanitari provocati da alcuni determinanti ambientali. La maggior parte degli scenari di inquinamento ambientale è caratterizzata da esposizioni multiple, basse concentrazioni ed elevata diffusione e variabilità spazio-temporale. Queste caratteristiche rendono difficoltoso il processo di valutazione del rischio sanitario.

Nel testo ho riportato i nuovi studi di biomonitoraggio umano  sulla valutazione del rischio connesso all’esposizione a xenobiotici, che potrebbe diventare maggiormente realistica grazie alla misura della quantità di contaminante effettivamente presente nell’organismo. Le indicazioni provenienti dagli studi di Biomonitoraggio rispetto agli studi sugli effetti sanitari presentano il vantaggio di identificare situazioni o alterazioni biologiche che potrebbero essere risolte prima che possano dar luogo a vere e proprie malattie. Il Biomonitoraggio umano è uno strumento di valutazione dell’esposizione a inquinanti con grandi potenzialità anche in termini di prevenzione.

In tutto ciò, il processo di stima dell’esposizione assume un ruolo centrale e sicuramente l’utilizzo di biomarcatori di esposizione, o di dose assorbita, per la stima dell’esposizione individuale a fonti inquinanti, apporta un contributo significativo e fondamentale nell’identificare precocemente cambiamenti nel profilo espositivo di popolazioni ben definite. Con il Biomonitoraggio umano si passa da una stima dell’esposizione a una misura diretta di un contaminante (o dei suoi metaboliti) nell’organismo umano, tenendo conto di variabili che difficilmente si riuscirebbe a considerare, quali le diverse vie di esposizione e le suscettibilità individuali.

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Sinteticamente, riportando le parole di Benedetto De Vivo, che ringrazio per i suoi chiarimenti, per affrontare il problema su basi scientifiche nella sua completezza, si devono effettuare indagini con ricerche mirate per:

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1) caratterizzare, prima di tutto, la composizione geo-chimica del suolo agrario, dell’aria e delle acque di falda su base regionale e     locale;

2) bisogna definire il livello di bio-disponibilità degli elementi e composti tossici;

3) determinare i tassi di assorbimento da parte delle varie tipologie di colture vegetali dei diversi contaminanti chimici presenti         nei suoli e nelle acque di falda;

4) cercare di dimostrare una relazione diretta fra presenza di contaminanti nei suoli, nell’aria, nelle acque, nei prodotti agricoli e       infine nelle matrici umane (capelli, urine, sangue) attraverso metodologie innovative.

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Questo è il lavoro che oggi sta svolgendo la regione Campania, in un’azione di sistema, studio e conoscenza, l’unica ad aver istituito una rete capillare di monitoraggio ambientale delle matrici, raccogliendo fino ad oggi, una quantità di dati impressionante. Ho avuto modo di conoscere i ricercatori del progetto Campania Trasparente, tra cui Rino Cerino ed Alfonso Gallo ed apprezzarne il lavoro svolto, ringrazio Antonio Limone per avermi dato modo di visitare l’Istituto IZSM.

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Riguardo la correlazione tra rifiuti e tumori, siamo convinti che il degrado ambientale criminalmente indotto in Campania debba essere gestito e risolto comunque a prescindere dalla incidenza e mortalità oncologica rilevata sul territorio; gli studi di epidemiologia ambientale hanno tempi, metodologie e standard che sono propri della ricerca scientifica, ma ciò non può, né deve rappresentare un alibi per i decisori politici per dilazionare nel tempo il problema del recupero ambientale.

Il dramma dell’emergenza rifiuti in Campania resta tale a prescindere dai suoi possibili effetti sulla salute. Le ferite inferte a intere aree del territorio campano utilizzate come sversatoio illegale non hanno bisogno della dimostrazione di possibili effetti sull’andamento della patologia oncologica per essere rimarginate: le bonifiche vanno avviate e concluse al più presto, a prescindere dai tempi e dai risultati delle varie analisi e indagini epidemiologiche attivate sul territorio. In merito all’andamento della patologia oncologica sul territorio e alla sua possibile correlazione con il dato ambientale si continua a fare riferimento, anche in modo strumentale e distorto, a studi epidemiologici, quale lo studio SENTIERI, che pure presentano limitazioni e criticità. Non possiamo che essere indignati ancora una volta di fronte a tale disinformazione che nei confronti dei bambini diventa ancora più indegna. A tal proposito ringrazio innanzitutto Mario Fusco he ha messo a disposizione la sua conoscenza, i dati e le informazioni al gruppo di studio della Task Force Pandora, tra cui ricordo: Sandra Monfardini, Saverio Stranges, Rino Panico e Pio Russo Krauss.

Dai dati dello studio SENTIERI presentati in queste pagine si evince che seppure vengono riportati dati di mortalità in eccesso per i tumori del SNC e per le ospedalizzazioni per l'insieme dei tumori e delle leucemie, i dati presentano dei limiti.  Chi usa questi dati in maniera superficiale senza riportarli nell'insieme dello studio, ma solo estrapolandone il dato, crea un caso di disinformazione che noi di Pandora, con l'aiuto del direttore del Registro Tumori abbiamo cercato di spiegare ancora prima che avvenisse uno dei peggiori e più gravi casi di disinformazione. Non vi è alcuna indicazione a suggerire controlli più serrati nella popolazione infantile residente nei siti contaminati. Sarebbe invece più opportuno che le associazioni dei medici pediatri, degli oncologi e degli ematologi operanti nelle strutture pubbliche ospedaliere individuassero percorsi di rapido accesso ai servizi sanitari. L’unica cosa che possiamo fare, in assenza di un rapporto di causa-effetto tra l’esposizione a sostanze inquinanti e l’insorgenza di malattia, è garantire diagnosi ancor più precoci in caso di segni o sintomi sospetti.

Esistono in Regione Campania, gravi problemi legati alla gestione della patologia oncologica, anche infantile; questi problemi sono documentati e più volte sono stati denunciati, ma attengono alla gestione dei percorsi diagnostico-assistenziali regionali e alle numerose criticità del Sistema Sanitario Regionale, tutt’ora presenti ed aggravatisi nel tempo. Purtroppo la patologia oncologica è un dato con cui bisogna confrontarsi e su cui migliaia di ricercatori sparsi nei laboratori di tutto il mondo sono quotidianamente impegnati, nella dura ma tenace ricerca per identificarne le cause e mitigarne gli effetti.

Le banalizzazioni, le semplificazioni e ancor più le strumentalizzazioni delle tragedie dei bambini con cancro, anche se finalizzate a denunciare il degrado ambientale, potranno solo creare confusione e aumentare l’angoscia delle loro famiglie. Ho quindi cercato di chiarire, attraverso la documentazione fornitami, i limiti degli studi epidemiologici, ma anche del sistema sanitario, la reale efficacia degli screening e la differenza sostanziale tra screening di popolazione ed esami tossicologi che vengono urlati a gran voce.

Ad una classificazione di tipo amministrativo dovuto allo sversamento illegale di rifiuti e di abbruciamento, abbiamo descritto un territorio e lo abbiamo condannato ad uno stesso fattore di rischio epidemiologico. Abbiamo quindi trasformato un problema amministrativo in un problema epidemiologico sanitario. Questo è davvero un grossissimo bias. Abbiamo di fatto dichiarato in questi anni che il 51,4% della popolazione della Regione Campania è a rischio. Abbiamo ridotto un intero sistema ad un unico fattore di rischio indipendentemente dal valutare la reale esposizione.

I comuni si distinguono per densità abitativa e dal punto di vista epidemiologico non possono essere accomunati, perché diversi. Abbiamo detto che Casavatore, circondato da comuni della Terra dei Fuochi è un posto idilliaco, solo perché non è rientrato nel Patto de La terra dei Fuochi. O ancora Comuni come Pollenatrocchia e Somma Vesuviana. Che senso ha? E lo stesso Portici e San Giorgio a Cremano. Il messaggio è fuorviante. La specificità del caso Campania a nostro avviso, consiste nella diffusione puntiforme e nella estrema eterogeneità delle sostanze inquinanti che il più delle volte sono coesistenti. Non è Taranto, o Porto Marghera, qui abbiamo una diffusione degli inquinanti non ancora nota, non sappiamo precisamente dove e cosa.

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Il vero problema è la comunicazione. Se l’emergenza rifiuti non ha un impatto significativo sulla salute, o almeno non evidenziabile al momento, ha però provocato gravi danni, e non solo ambientali. Il danno principale è la sfiducia della popolazione nei confronti delle autorità sanitarie. Il problema è che la comunità scientifica si è trovata del tutto impreparata a gestire la comunicazione con il pubblico, e il fatto che non ci si sia posti per tempo il problema ha comportato una grave incapacità a comunicare nel modo giusto. Con conseguenze drammatiche: la popolazione ha perso fiducia verso le istituzioni e, quel che è peggio, in questa sfiducia ha accomunato le istituzioni medico scientifiche a quelle politiche. Paradossalmente, quindi, anche se la comunità medica è per definizione al servizio della salute della popolazione, ora è percepita come se stesse dall’altra parte, cioè “contro”. E non ha certo aiutato l’atteggiamento dei media: in particolare la televisione, che molto spesso si pone verso il pubblico non con l’obiettivo di fare informazione, ma solo per fare audience.

Notizie prive di fondamento scientifico finiscono per avere grande impatto sull’opinione pubblica, che non è in grado di valutare la sussistenza o meno, dietro la notizia, di una fonte attendibile. Ancora più grave è il caso, per esempio, di qualche medico, magari non esperto in dati di popolazione, che viene intervistato per qualche programma televisivo e riporta, distorcendole, le conclusioni di studi condotti da gruppi di esperti. Questo finisce con l’attribuire apparente solidità ai dati riferiti, ma in realtà rappresenta una comunicazione fuorviante che spesso ha come principale conseguenza l’inevitabile crisi di fiducia nelle istituzioni da parte della popolazione, e in particolare nei confronti delle aziende sanitarie di riferimento. Il problema a monte è che chi arriva prima al microfono, vince: le prime affermazioni diffuse al grande pubblico attraverso i media assumono il significato di verità ed è difficile, successivamente, smentirle, anche se sono prive di fondamento o di riscontro scientifico. In questo modo, spesso, gli addetti ai lavori sono messi in condizione di dover inseguire la notizia per poi rettificarla, quando possibile. Sono notevoli gli esempi che potrebbero essere citati e che si ripetono, puntualmente, ogni volta che vengono diffusi risultati scientifici di interesse della sanità pubblica. I media o qualche pseudoesperto commentano le risultanze al posto dell’autore, con il risultato di generare, spesso, grande allarme nell’opinione pubblica; ciò comporta, nelle diverse realtà locali, un notevole sforzo degli esperti per cercare di ricondurre nella loro reale dimensione i concetti veicolati in modo distorto. [3]

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Una delle peggiori cose dal punto di vista mediatico è il dibattito scientifico, soprattutto quando a parlare non sono i dati e la loro confutazione, bensì le offese personali e la esternazione dei propri titoli accademici e professionali. La gente rimane totalmente immobile e la sfiducia piomba nelle case di famiglie che alle difficoltà reali di affrontare i problemi, in una regione dove il minimo diritto non viene garantito, si aggiunge la disinformazione e non sarà questa a salvare vite umane.

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Vogliamo ribadire, ancora una volta, la nostra convinzione che la situazione sanitaria della nostra regione ci porta ad affermare in modo netto che uno dei determinanti principali delle condizioni di salute delle popolazioni campane risiede nel degrado economico e sociale e nelle gravissime criticità del Sistema sanitario Regionale. Senza alcun dubbio, anche le condizioni ambientali possono rappresentare una concausa, sebbene sono anch’esse l’effetto del degrado politico-sociale in cui ci troviamo da tanti anni, ma non vogliamo che l’attenzione su di esse possa sviarci dalla necessità primaria di allineare il sistema sanitario regionale agli standard (almeno nazionali) ed avviare investimenti economici e culturali per lo sviluppo socio-economico-ambientale della nostra regione.

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In ultimo, in queste pagine ho voluto stringermi ai contadini delle nostre terre. Ho avuto modo di andare a visitare una delle aziende che si trovano a Casal di Principe, ho mangiato quei prodotti. Ringrazio ancora Giuseppe Cimmino per la sua generosità e gentilezza nell’ospitarmi. Ho voluto raccontare il dramma di coloro che hanno visto “sfiorire” intere colture a causa dei pozzi sequestrati e che ancora oggi vedono inaccessibili quei campi che hanno donato fino a qualche anno fa prodotti pregiati. Ricordo a tal proposito Silvestro Gallipoli, Antonio Di Gennaro ed Aurora Brancia che mi hanno fornito le informazioni tecniche necessarie per comprendere la situazione e capire l’importanza della definizione dei valori di fondo che hanno portato al sequestro di quei campi, cosi come ho potuto spiegare nel testo.

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Concludo il mio libro raccontando del mio incontro con l’On Gianpiero Zinzi e l’Avv. Pasquale de Lucia, da cui è nata una proficua collaborazione. Grazie anche al gruppo di studio che ho costituito composto da Marco Esposito, Pasquale Crispino e Massimo Fagnano, il giorno 27 maggio del 2016 l’On. Zinzi ha depositato la proposta di legge “Intervento di Bonifica, di ripristino ambientale e di messa in sicurezza in materia di siti inquinati”. Hanno contribuito alla definizione del testo anche Maddalena Samaria e Mario De Biase. Un testo di legge organico non solo per la disciplina dei valori di fondo, ma anche per stabilire un percorso rapido ed efficace per la bonifica dei terreni agricoli contaminati.

 

Tra gli altri voglio menzionare, Carlo Schiattarella che continua la sua instancabile battaglia sul monitoraggio dell’aria, Armando Di Nardo, Giovanni De Simone, Gregorio Palumbo, Achille Iolascon, Giovanni Ortosecco, Antonio Lucisano, Giuseppe De Salvin, Maria Ciaramella, Eugenio Cozzolino, Francesca Santagata, Maria Messina, Alessandro Picone, Gionata de Vico, Luigi Morra, Carlo Enzo Ravasi e tutti coloro che mi sono stati di supporto in questi anni. Alla pazienza infinita dei miei familiari. In ultimo Angelo Ferrillo, grazie al quale ho iniziato la mia personale battaglia contro i roghi in difesa di un territorio che amo, pur dovendo lavorare e vivere negli Stati Uniti. Il mio augurio è di aver contribuito alla conoscenza di un problema complesso che ha portato con la sua semplificazione ad ulteriori danni.

Il libro, che considero una prima edizione, sarà promosso sulla pagina facebook, al fine di poter discutere sui dati, eventualmente correggere od integrare, portare ulteriori chiarimenti ed arricchirlo di contenuti aggiornati sulla base delle ricerche effettuate.

 

Paola Dama

Con la collaborazione della Task Force Pandora

10 giugno, 2016

 

[1] Fonte Treccani.it

[2] A.Alimonti, B.Bocca, D.Mattei e A.Pino

[3] Dr. Angelo D’Argenzio - direttore del Servizio di epidemiologia, dell’Asl Caserta 2 su Epicentro.

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